Fondazione Meuccia Severi

Meuccia Severi

LA FONDAZIONE

La Fondazione Meuccia Severi, istituita nel luglio 2008, nasce, come gran parte delle fondazioni costituite da persone fisiche, dalla volontà della sua fondatrice, Meuccia Severi, di lasciare alla memoria e alla collettività di un territorio per la pubblica fruizione e condivisione, una collezione o raccolta d’arte di una vita cui dare collocazione, conservazione e cura per il futuro e fornire un sostegno di pubblica utilità, sulla base di uno spirito filantropico. La fondazione ha sede nella villa, anch’essa intitolata all’imprenditrice di origini emiliane, realizzata nel 1962 su disegno della sua stessa proprietaria e immersa in diecimila metri quadrati di verde. La casa-museo rispecchia in ogni soluzione, da quella tecnico architettonica a quella d’arredamento, il gusto e la personalità della sua creatrice secondo la quale, il dettaglio e il particolare assumono la stessa importanza dell’insieme. Il rigoglioso giardino, la piscina, gli arredi, gli oggetti legati alle arti applicate come i vetri, i tappeti, le ceramiche, i servizi per la tavola, oltre naturalmente quadri e sculture di notevole pregio uniformemente distribuiti negli spazi della villa, tanto all’interno quanto all’esterno, formano un mirabile unicum da conservare e comunicare, in primis al territorio di appartenenza.

LE ORIGINI A CARPI E L’ARTE DEL TRUCIOLO

Una storia la sua, che si intreccia, come un filato in un ordito più complesso, in quella affascinante e densa di risvolti della sua famiglia. Un numeroso nucleo familiare emiliano, della provincia modenese in particolare, dove Meuccia è la maggiore di cinque figli: dei suoi tre fratelli Umberto, Azio, Silvio e della sorella Maura. Il padre Carlo Severi, era un piccolo industriale di Carpi che produceva, in paglia, cappellini per signora e cappelli da lavoro per la campagna.

A Carpi infatti, quella dei copricapi era una produzione ben radicata e diffusa grazie ad una secolare tradizione manifatturiera fondata sulla cosiddetta “arte del truciolo”, che affonda le sue radici nel XVI secolo. A tale proposito, è necessaria una breve parentesi di storia.

L’origine del cappello va senz’altro individuata in una geniale variante dell’intrecciare ceste e canestri, comunemente usuale presso le classi contadine, le prime che poterono apprezzare la massima funzionalità di quel copricapo leggero, economicissimo, efficacemente impermeabile ai battenti raggi solari padani e, di converso, apprezzabilmente permeabile al sudore della fronte.

L’arte del truciolo” consisteva infatti nel trarre dai tronchi di salice e di pioppo, piante caratteristiche di quel territorio e di cui sono ricche le sue campagne, delle paglie sottili, i trucioli appunto, uniformi per spessore, larghezza e lunghezza. Le paglie ottenute venivano poi intrecciate per andare a for- mare una lunga fettuccia, la treccia, che esperte cappellaie, sia manualmente che, a partire dall’inizio del 1900, a macchina, utilizzavano per confezionare il cappello. Per questa ragione i cappelli venivano chiamati “cappelli de treza de legno“.

La maggior parte del lavoro era basata su una fittissima organizzazione del lavoro a domicilio, specie di manodopera femminile. Era prevalentemente la treccia, e in misura assai inferiore il cappello, il prodotto che da Carpi veniva collocato sulle piazze del mercato interno ed esterno. Trecce e cappelli erano due prodotti chiaramente diversi per le implicazioni a carattere organizzativo-produttivo: la treccia si collocava su vari mercati come una delle tante materie prime lavorate, utili alla produzione di cappelli o altro, che veniva eseguito altrove, fuori da Carpi. Nella prima metà del XX secolo il distretto carpigiano era sicuramente uno dei maggiori centri produttivi del settore, i cappelli da lavoro per la campagna che vi si producevano infatti, venivano esportati in tutto il mondo.

Una fantasia, quella degli industriosi emiliani nell’escogitare la fabbricazione di cappelli con i trucioli, che fu applicata in seguito con altrettanto successo nella maglieria e nelle confezioni. L’origine della lavorazione della maglia a Carpi risa- le storicamente agli anni Cinquanta del XX secolo, quando l’espansione del mercato nazionale ed europeo suggerì alle imprese di convertire le competenze manuali ed organizzative della lavorazione dei cappelli di paglia, alla produzione di maglie e camicie. E fu così che quella stessa organizzazione del lavoro a domicilio, sebbene su competenze diverse, ebbe a dimostrarsi preziosissima all’avvio del tessile-abbigliamento che ha fortemente caratterizzato l’economia locale a Carpi e nei centri limitrofi del secondo dopoguerra. L’affermarsi di questo nuovo settore che, diversamente dallo stagionale truciolo, offriva continuità di impiego e quindi di reddito, con un conseguente travaso di manodopera che si avvicinava alle nuove competenze richieste abbandonando quelle antiche, è stata una delle cause dell’inesorabile declino e scomparsa di questa secolare attività».1

Questo mondo Meuccia Severi impara a conoscerlo sin dall’infanzia, frequentando già da bambina lo stabilimento del padre. Il ricordo che conserva di suo padre Carlo è quello di un instancabile lavoratore e di un uomo severo e rigoroso. Lei, dal temperamento indomito, arrivava spesso a scontrarsi con la rigidità paterna.

Nell’azienda di Carpi collaboravano tutti i componenti della famiglia, madre e fratelli, e ricorda come non si rispettassero mai le canoniche otto ore ma che si arrivava fino a dodici o anche tredici ore di lavoro. Si lavorava fino a mezzogiorno persino la domenica. Tanto che prima della guerra, il padre riuscì ad accumulare un consistente capitale economico che gli permise di comperare diversi terreni appena fuori dal paese.

Nel sottolineare come la produzione del cappello fosse rigidamente condizionata dall’utilizzo dei materiali, la paglia per l’estate e il feltro per l’inverno, Meuccia Severi ama ricordare come sin dall’età di dodici anni si divertisse ad affiancare la stilista dell’azienda per aiutarla negli ultimi ma sostanziali, “ritocchi” ai cappellini in feltro per signora, impreziosendoli con accessori vari quali velette, piume, pon pon, fiori o bottoni ricercati. Una ricerca, quella delle applicazioni sui cappellini, che si rivelò fantasiosa e stimolante anche per il fatto che, il doverle cercare per poterle acquistare dai migliori fornitori, le offriva il pretesto di viaggiare ampiamente per l’Italia: solo a Napoli, ad esempio, si riuscivano a trovare fiori decorativi di elevata fattura e bellezza. Poco più tardi una giovanissima Meuccia iniziava anche a tenere la contabilità dei dipendenti che lavoravano a cottimo.

E furono proprio queste prime esperienze nell’ambito dell’attività familiare, a rivelarsi fondamentali nel contribuire a for- giare un’attitudine e una propensione innate, tanto nei con- fronti del commercio quanto dell’estro creativo, perché come la stessa Meuccia Severi ammette, fu da questi suoi primi approcci con il mestiere di modista, dalla ricerca di nuove cose e di stimolo creativo, insieme all’incontenibile sete di novità, che comprese il grande valore delle idee e delle emozioni sul lavoro, che non volle più abbandonare.

IL DOPOGUERRA

Dopo la Seconda guerra mondiale le aziende del cosiddetto Distretto industriale del cappello subirono ingenti danni economici e corsero il rischio di un generale arresto delle normali attività. Se prima della guerra infatti tutti, sin da piccoli, indossavano per tradizione un cappello, già nell’immediato dopo- guerra anche quell’usanza, così profondamente radicata tra la gente di quei luoghi, fu spazzata via insieme a tutto il resto. Fu così che il cappello di paglia dovette soccombere a quello in tela, industrialmente prodotto. Inoltre, terminata la guerra, <<i contadini erano diventati i padroni» al punto di riscattare la posizione di subordinati assunta fino a quel momento, ponendosi in aperto scontro con le classi signorili.

Fu allora che Carlo Severi, prese la decisione di vendere tutti i terreni per acquistare il cittadino e centralissimo Palazzo Fo- resti, insieme alla ricca collezione d’arte antica che custodiva.

Ironia della sorte il cavalier Pietro Foresti (Carpi, 1854-1926), esponente di una nobile famiglia che aveva avuto nel suo passato anche legami con l’arte grazie ad importanti commissioni, a fine Ottocento era un imprenditore del “truciolo” tra i maggiori in Italia. Collezionista onnivoro dotato di ingenti mezzi finanziari, nel 1892 incaricò l’architetto-ingegnere Achille Sammarini (1827-1899) di adattare a dimora signorile, in parte demolendolo, il vecchio fabbricato delle industrie di famiglia di paglie e cappelli in truciolo e nel 1897 acquistò quella che all’epoca, era considerata la maggiore raccolta artistica di Carpi.

L’acquisto di Palazzo Foresti rappresentava per Carlo Severi l’investimento per il futuro, tanto che a sua volta lo donò ai suoi tre figli maschi dei quali Umberto, dopo alcuni anni, liquidò i fratelli e rilevò totalmente lo storico immobile con la collezione d’arte ivi custodita.

L’INCONTRO CON ARRIGO

Quando conobbe Arrigo Salvaterra, colui che sarebbe diventato il suo futuro marito, Meuccia Severi era dunque una giovane benestante che amava la ricercatezza senza nasconderlo.

Negli anni appena precedenti Arrigo Salvaterra, classe 1919, era stato un valoroso combattente per la Liberazione dal nazifascismo. Aggregato ai genieri d’assalto nel costituendo Gruppo di Combattimento Friuli, combatté e lasciò numerosi caduti nelle battaglie sulla Linea Gotica nelle terre di Romagna, partecipando con coraggio allo sfondamento delle linee tedesche nell’aprile del 1945 e alla travolgente avanzata ver- so Bologna dove i soldati del Friuli furono i primi ad entrare, il 21 aprile 1945.

Si sposarono a Carpi il 7 ottobre del 1950 e immediatamente dopo, si trasferirono a Pesaro. Meuccia Severi non aveva particolarmente a simpatia la professione di suo marito Arrigo, che lavorava nella distribuzione di generi alimentari e che aveva un magazzino a Pesaro, in via Petrucci nello specifico, che riforniva sia i negozi cittadini che realtà più importanti, come l’ospedale e le colonie estive.

IMPRENDITORIA TUTTA AL FEMMINILE

Solo dopo avere provato per un anno a lavorare insieme a lui, Meuccia comprese che non era ciò di cui le sarebbe piaciuto occuparsi per tutto il resto della sua vita così, approfittando di un diverbio accesosi insieme ad un braciere che aveva iniziato ad usare per riscaldarsi nel freddo locale del magazzino del marito, decise di dare una svolta alla sua vita, avviando un’attività nel settore a lei più familiare e consono, quello della maglieria. Lei d’altronde era forte non solo della rigida educazione paterna ma anche dell’esigente insegnamento materno che l’aveva impratichita alle più femminili arti domestiche: dalla cucina e dalla scuola di ricamo a mano frequentata dalle suore, fino a quelle di taglio e cucito e di ricamo a macchina.

Dopo un solo anno dall’avere intrapreso la sua nuova attività, tra il 1951 e il 1952, Meuccia Severi iniziò a reclutare maestranze femminili nelle campagne circostanti. Non va dimenticato che a quel tempo, nel territorio pesarese, a differenza del distretto carpigiano, il lavoro autonomo per le donne, ancora dedite prevalentemente alle mansioni domestiche, era evento più unico che raro.

Era Meuccia che si impegnava di persona a cercarle, recandosi presso le famiglie dove veniva informata della presenza di una ragazza, e a convincerle ad imparare un mestiere. E ricorda come fosse difficile, per una mentalità ancora estremamente restìa a proposte di guadagni al femminile, fare ca- pire loro e alle rispettive famiglie, una novità come quella di intraprendere un lavoro remunerativo a domicilio. Lei in fondo veniva da un “altro mondo”, quel mondo dove le trecciaiole a domicilio non erano state sfiorate dalla forte mentalità con- servatrice, così permeata invece nel territorio poco più a sud, ma anzi avevano contribuito in prima linea ad innescare un fortissimo presupposto economico. Nacque così nel 1952 la Coronet Vikingo – che dal 1977 muterà la ragione sociale in Cleo – l’azienda con sede a Pesaro che arrivò a contare fino una cinquantina di dipendenti e a produrre tra i dieci e i quindicimila capi di maglieria al mese. Il grosso del lavoro rimane- va comunque conto terzi, ed erano veramente tante le ragazze, duecento all’incirca, che lavoravano per lei sul territorio.

Meuccia ama ricordare quanto fossero incredibili certe scene alla stazione delle corriere quando dai paesi o dalle campagne circostanti, arrivavano le ragazze a consegnare il lavoro confezionato, derivato da un pacco di lana da cinque chili, precedentemente ricevuto insieme al modello di maglia da realizzare. E non tralascia neppure di raccontare come si demoralizzassero alcune giovani lavoratrici, nella loro poca esperienza, quando lei con il piglio esigente di chi ama la perfezione, chiedeva loro di riconfezionare il lavoro perché non eseguito a regola d’arte. «Non capivano che anziché avvilirsi dovevano sorridere perché era così che avrebbero imparato un mestiere. Nell’essere precise».

Nel frattempo, Meuccia aveva anche sviluppato una smodata passione per le automobili fuoriserie, ed è facilmente immaginabile quanto non passasse inosservata, in quegli anni, una donna alla guida per di più di una fiammante auto sportiva, quando si recava per lavoro nelle campagne. Erano infatti an- cora pochissime le donne che avevano il lusso di conseguire una patente di guida e Meuccia riuscì a conquistarsela già prima della guerra, nel 1942, andando appositamente fino a Modena a sostenere l’esame finale. Neppure il marito Arrigo fece passare troppo tempo per convincersi ad abbandonare definitivamente il commercio di generi alimentari. Dopo soli tre o quattro anni, infatti, in virtù delle promettenti circostanze, decise di seguire la moglie nella professione appena avviata, declinando così il suo talento e il suo estro nel settore della maglieria e confermando ben presto l’innata predisposizione nei confronti del commercio.

Iniziarono a lavorare con il fiorente mercato americano, intrecciando rapporti commerciali con la grande distribuzione dei magazzini più prestigiosi. La loro forza, infatti, consisteva nell’aggiornare immediatamente la collezione dei capi, ogni qual volta si affacciasse una nuova moda o tendenza, inserendosi strategicamente nel solco del nascente “prontomoda”, nato da quella democratizzazione della moda seguita alla produzione industriale del prêt-à-porter. «Eravamo noi, gli italiani, i cinesi di oggi!» sottolinea l’imprenditrice. Dopo il mercato americano la diffusione delle confezioni si allargò alle catene distributive di Russia e Italia.

Quando poi alle soglie del XXI secolo, l’innovazione tecnologica di macchinari all’avanguardia subentrava e sostituiva quelli di precedente generazione, rendendoli obsoleti, anche il mercato aveva iniziato inesorabilmente il suo processo evolutivo. Si rendeva necessario con urgenza un radicale cambiamento di mentalità. E se inizialmente la sua indefessa passione l’avrebbe portata ad acquistare alcuni di questi macchinari di nuova generazione per continuare a creare, magari anche una sola tipologia di articolo pregiato, caratterizzato dall’imprescindibile cifra di qualità e gusto, un giorno guardandosi allo specchio e ripercorrendo a ritroso la sua vita, si rese conto che alla fine non c’era nessuno su cui poter fare affidamento in futuro. Fu così che nel 2000, decise di chiudere per sempre quell’attività che fino a quel momento, aveva rappresentato la sua linfa vitale.

Arrigo Salvaterra scomparve il 9 dicembre del 2009. Nel frattempo, oltre alle gratificanti vicissitudini professionali, aveva meritato il conferimento dell’onorificenza di Grand’Ufficiale al Merito della Repubblica. Lo si ricorda anche come Presidente onorario della Associazione Nazionale Reduci della Friuli e non da ultimo, anche come sostenitore dello sport cittadino, visto che per anni, aveva ricoperto con dedizione e generosità, la carica di Presidente della Vis Pesaro Calcio.

Meuccia Severi incarna tutt’oggi un singolare e prestigioso esempio. Quello di avere trasferito nel territorio di adozione un know-how che ha avuto il merito di innescare il germe di un’imprenditoria tutta al femminile, fino ad allora praticamente inesistente nel comprensorio del pesarese, gettando sani presupposti per quello che, da lì in avanti, sarebbe diventa- to un importante settore dell’economia locale. Senz’altro un ineguagliabile modello di riferimento per la rappresentanza femminile cittadina e non solo, a partire da alcune delle stesse dipendenti dell’azienda della signora Severi che da lì, sono decollate ad aprire le prime realtà produttive legate al comparto della maglieria o del tessile-abbigliamento.